I realismi magici di Mark Elliott e Naoto Hattori in mostra a Roma
Cosa accomuna il gatto Felix, principi ranocchi, bianconigli, fiori e alberi animati, piccoli volti distorti della giovane Alice?! Non siamo dentro un film disneyano e neanche in un remake della classica filmografia di Tim Burton. Ci immergiamo in una realtà “senza resti” ovvero dove l’invisibile è visibile, dove l’intangibile diventa il soggetto dell’opera.
Attoniti e lucidi osserviamo il mondo fantastico immerso in un contesto reale di due degli esponenti del Pop Surrealism, il giapponese Naoto Hattori e l’americano Mark Elliott. Entrambi sono i protagonisti alla Dorothy Circus Gallery di Roma, che dal 2007 ha il merito di aver portato per la prima volta sulle scene dell’arte contemporanea italiana artisti del calibro di Jonathan Viner, Ron English, Sas & Colin Christian, Camille Rose Garcia, Alex Gross, Joe Sorren, Tara Mc Pherson, James Jean, Travis Louie e molti altri, della mostra che sarà aperta al pubblico, dal 28 aprile al 1 giugno: The Caravan Circus. I personaggi escono davvero da un grande circo, sia in Mark Elliott che Naoto Hattori, ma le declinazioni pop e surrealiste sono differenti, stilisticamente e contenutisticamente.
Se Naoto Hattori è più dichiaratamente pop, Mark Ryden è più vicino a quello che definiamo surrealismo, o meglio, probabilmente si potrebbe tradurre la sua opera con il termine di “realismo magico”. Creature che sembrano emerse da un quadro di Bosch e le Teste composte di Arcimboldo, questo è il regno di Naoto Hattori, giovane artista illustratore e graphic designer giapponese, esplorando con vari media (acrilico, olio, inchiostro e acquerello), un mondo che, come per Bosch “evoca un male immateriale, un principio di ordine spirituale che deforma la materia, un dinamismo che agisce in senso contrario a quello della natura” (“Jérome Bosch” di L. van de Bossche, 1944).
Le teste multiformi di Hattori mischiano le cose viventi in un disordine che genera una composizione dove la visione d’insieme non genra così tanta inquietudine come i singoli particolari, soggetti, che compongono il “puzzle vivente” di ogni sua opera. Il particolare sono generati da un’acuta dose d’ironia esprime ciò che possiamo definire “immateriale”. Mark Elliot, statunitense, riprende come stile quello che deriva dal movimento artistico degli anni Trenta in America, il Precisionismo. Come i quadri di Edward Hopper, i suoi protagonisti, sono “figure imprigionate nel posto che occupano perché diventano parte della composizione generale del quadro e dei diversi movimenti direzionali di forme e colori. Non hanno capacità di movimento indipendente.
Inoltre, i colori sono brillanti, ma non trasmettono calore” (M. Baigell – Arte Americana, 1930-1970. Milano, 1992). Qui predominano l’indaco e il rosa, alternati dal marrone, rosso e il verde. Le protagoniste sono modellate secondo la tradizione figurativa della classicità rinascimentale italiana del Trecento e del Quattrocento. Metanarrazioni che accumunano Elliott agli autori del Realismo magico, termine che fu per la prima volta utilizzato dal critico tedesco Franz Roh per descrivere il realismo dei pittori americani come Ivan Albright, Paul Cadmus, George Tooker e altri artisti durante glianni Venti dove l’elemento soprannaturale emerge insospettato nelle pieghe della vita di tutti i giorni. A differenza con il Surrealismo, che utilizza tecniche come la scrittura automatica, l’ipnosi e il sogno, il realismo magico descrive il mondo reale come dotato di meravigliosi aspetti inerenti ad esso.
In pittura i dettagli sono curati nei particolari e definiti nello spazio, lo scenario è immobile, incantato, immerso in una magica sospensione, i personaggi vivono una situazione di classicità assorta e talvolta anche inquietante. Tra i due artisti, Elliott e Hattori, in comune abbiamo l’interesse per elementi che possono essere intuiti ma mai spiegati, i personaggi mettono in questione la logica degli eventi, distorsioni temporali, inversioni, ciclicità o assenza di temporalità o il collassare il tempo in modo da creare un’ambientazione in cui il presente si ripete o richiama il passato.
Racconti in immagini, eclettismi che, come scrisse Bontempelli “racconto fatti veri, accaduti a me, nella città di Milano. Questa narrazione – la quale comprende tutte le avventure che mi sono accorse una mattina, tra le 12 e le 12.30, andando da via San Paolo alla Galleria – potrà sembrare troppo complicata a quanti hanno l’abitudine di andare da casa alla trattoria senza incontrare nulla che sia degno di essere raccontato. Eppure questa è una storia vera. E io non la scrivo per quegli uomini troppo semplici. (dalla prefazione a “La vita intensa. Romanzo dei Romanzi”)”.
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