Andy Warhol e il cinema: il re della pop art torna al MoMA di New York
Un’icona del nostro secolo? Beh, potremmo dire Andy Warhol. L’uomo che affermava “non vado mai a pezzi perchè non sono mai tutto intero” è il re incontrastato del pop americano, colui che ha reso celebre l’immagine ripetuta di Marylin Monroe e che ha reso col tempo il poster della “scatoletta Campbell’s” elemento tipico di un arredamento da casa da single.
Artista, provocatore consapevole, uomo problematico che ha dedicato la sua vita all’essere amato o odiato adesso, dal 19 dicembre, varca il “red carpet” del Moma di New York, luogo istituzionale dell’arte contemporanea, con una mostra retrospettiva non dei suoi quadri o immagini fotografiche bensì dei film che dal 1963 al 1973 realizzò anche in compagnia della comunità underground newyorkese: Edie Sedgwick, Nico, Baby Jane Holzer, Allen Ginsberg, Lou Reed, Dennis Hopper, Susan Sontag, Ethel Scull.
Andy Warhol: Motion Pictures è organizzata da Klaus Biesenbach, curatore del Museum of Modern Art, e direttore del MoMA PS1. Non tutti sanno che Warhol, prima della sua morte avvenuta nel 1987, ha stabilito che i suoi film dovevano essere curati dal Moma, e nel 1997 un generoso sostegno da The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts ha consentito al museo di conservare e restituire alla circolazione i suoi film, i cui diritti sono detenuti dalla Andy Warhol Museum di Pittsburgh.
Per questo motivo, in questi giorni dove il freddo a New York si fa sempre più pungente, vedremo “esposti” al sesto piano del museo i suoi “cimeli” ovvero i suoi film. Dodici “Screen Tests” proiettati sulle pareti della galleria; iniziamo la visita “virtuale” gustandoci Sleep attraverso una grande proiezione all’ingresso della mostra ai cui due lati sono esposti Eat e Blow Job. Nel piccolo cinema da 50 posti alla fine della galleria possiamo dare un’occhiata a Kiss e Empire (1964). Le cinque ore e mezzo di Sleep potrebbero forse essere un po’ eccessive ma rientrano nel gioco sul “tempo” tipico dei film di Warhol che dal 1963 comincia a creare ritratti non solo “pittorici” ma da proiettare sul grande schermo: così nasce Sleep dove il soggetto è John Giorno. I baci di coppie girati nell’arco di diversi mesi sono invece i soggetti di Kiss mentre le otto ore del film Empire ci rivelano o ci sottolineano una delle consuetudini della vita: l’attesa.
Caratteristiche dei film? Insolita lentezza unita ad una fluidità del ritmo quasi astratto. Basti considerare i Test-Screen, ritratti dove i soggetti sono stati invitati o ad emulare una fotografia e quiondi a non muoversi o parlare oppure ad “eseguire” un provino oppure altri sono stati ripresi spontaneamente nella loro vita quotidiana. Si crea così una galleria di ritratti, volti, personaggi. Ed è qui l’essenza di Warhol. Un uomo per cui l’immagine come comunicazione era fondamentale e allo stesso tempo era ossessionato dalla sua di immagine, il ritratto, il volto delle persone diventa l’oggetto della sua indagine. Il tempo catturato all’infinito, la lentezza “voluta”, la ripetizione dei gesti, l’attesa del nulla, come nei Test-Screen o in film come Sleep rivelano la volontà di analizzare, di tentare di scoprire, in modo quasi ossessivo, “al rallentatore”, cosa c’è dietro la banalizzazione di quel determinato atteggiamento o di quella situazione. Non è mera ripetizione “pop”, non è “serigrafia in movimento”. Warhol dopotutto era colui che affermò “non è forse la vita una serie d’immagini, che cambiano solo nel modo di ripetersi?”.
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